In vetrina il grano duro varietà “russello” ed il pane tipico casereccio, antica tradizione della Contea
La città di Modica ha aderito all’Associazione italiana “Città del pane” il cui obiettivo è quello di costituire una rete nazionale di tutte le città che trovano nel pane tipico un punto di forza della propria
cultura e tradizione.
E’ risaputo che in una società contadina, come quella riconducibile alla Contea di Modica, la preparazione dei cibi ed in particolare del pane, alimento base e di primaria necessità, assunse nel gesto quotidiano una specifica importanza .
Questo cibo, per l’usualità della materia e per la quotidianità del consumo, potrebbe essere considerato semplice e naturale, rimanda invece ad una lunga e raffinata civiltà alimentare.
Dalla semina al raccolto del grano, dalla trebbiatura dei chicchi alla loro macinazione per ridurli in farina e ai sistemi per conservarla lungo il corso dell’anno, dall’impasto della farina con l’acqua alla sua cottura nel forno, è tutto un processo che si svolge per tappe obbligate che necessitano un sapiente controllo ed un alto grado di conoscenze, capacità ed esperienza. Decisiva, in questa procedura, la tecnica della lievitazione.
Gli antichi Egizi furono tra i primi a perfezionare la confezione del pane con la lievitazione di tipo artigianale e con la costruzione dei primi forni a cupola. In Grecia la tecnica della panificazione fu notevolmente migliorata, sia nella costruzione dei forni sia nella varietà del pane i cui nomi prendevano origine dalle forme, dal tipo di cereali usati, dagli ingredienti e dal modo di cottura.
Ai Romani, tutti i segreti dell’arte panificatoria furono svelati da esperti fornai greci, fatti prigionieri dalle legioni vittoriose nella guerra contro Perseo.
Sappiamo, inoltre, che tutte le popolazioni hanno attribuito al pane un significato sacro, come simbolo del nutrimento e quindi della vita. Quella della preparazione del pane è sicuramente una millenaria tradizione di lavoro che, in particolare, nel territorio Ibleo restituisce segni, forme, ritmi e gesti di indimenticata memoria. E tutto ciò a dispetto delle semplici soluzioni offerte dall’attuale società consumistica “impegnata” a veicolare la scelta del cibo in generale e quindi anche del pane,sulla base della sua appetibilità visiva e commerciale piuttosto che sull’appetibilità sostanziale e naturale.
In questi ultimi anni stiamo, comunque, assistendo ad una rivalutazione del mestiere dell’artigiano panificatore e del processo tradizionale di fabbricazione del buon pane.
Chi come noi, non più giovane, ricorda ancora come veniva preparato un tempo il buon “pani ri casa”.
Il primo passaggio era costituito dalla preparazione del lievito madre (cruscenti). Un impasto, questo, a base di farina, acqua e zuccheri che mescolati tra loro e rinfrescati con costanza, fermentano spontaneamente. Questa fermentazione ha come effetto visibile la produzione di anidride carbonica che fa aumentare il volume dell’impasto producendo delle bolle interne. Così, semplicemente, complici il tempo ed i rinfreschi, nasce il lievito madre.
La pasta acida ottenuta può essere già usata, ma non darà un pane molto lievitato. Affinché si raggiunga il giusto grado di maturazione del lievito occorrerà effettuare una serie di "rinfreschi" giornalieri, per almeno 15-20 giorni, finché l'impasto non raddoppia in sole tre ore.
Per rinfresco si intende l'operazione di impastare il lievito con uguale peso di farina e metà di acqua. L'impasto va poi messo al caldo finché non raddoppia in volume.
A questo lievito, nella “maidda”, contenitore in legno, veniva aggiunta la farina, setacciata con il “crivu”, e dell’acqua calda e si procedeva quindi all’impasto..
Una volta che l’impasto raggiungeva la compattezza voluta dalle esperte mani della massaia, si depositava per essere amalgamato e ben lavorato sulla “briula”, una tavola piana, poggiante su due
panchetti e dotata di una stanga, “u briuni”, ben levigata che presentava ad una delle sue estremità un foro per connettersi alle due alette, “palummedde”, sporgenti dallo stesso piano di lavoro, nel punto in cui esso si restringeva.
Si procedeva, quindi, ad un’antica e familiare gestualità che prevedeva in genere l’impegno dell’uomo a muovere dall’alto verso il basso la stanga,che, facendo leva su un perno ligneo, “u cavigghiuni”, pressava l’impasto, mentre la donna, seduta a cavallo sulla parte più stretta della gramola , imprimeva alla massa bianca un moto rotatorio, assecondando con perizia e precisione il cadenzato tamburellare del briuni.
La ritmata movenza del lavoro (scaniatura) sembrava scandire i passi e le pause di una simbolica danza, di cui la tradizione orale ha conservato intatti i riferimenti anche di tipo metaforico come documentato nelle sue opere da Serafino Amabile Guastella.
Ultimata tale operazione la corposa e informe massa veniva contrassegnata con una croce e quindi tagliata a pezzi singoli del peso di circa un chilogrammo.
Ciascun pezzo veniva modellato, con delicata fattura, da mani sicure e quindi sistemato sopra un letto e lasciato a riposare per un po’ sotto calde coperte (a misa ro pani o liettu).
Durante tale pausa veniva preparato il fuoco nel forno rigorosamente a legna.
Conclusa questa fase , anch’essa laboriosa, si procedeva ad infornare il pane e quindi a cuocerlo realizzando calde e profumate “cudduredde”.
Il pane nella nostra tradizione oltre ad essere buono da mangiare svolgeva anche una funzione simbolica. Ci si riferisce, ad esempio, al pane natalizio denominato “cannizzu” che confezionato alla vigilia di Natale veniva consumato per il Capodanno quando il capofamiglia lo affettava e lo distribuiva a tutti i componenti il nucleo familiare.
Esso aveva una valenza rituale e propiziatoria come si desume dalla simbologia raffigurata- u “cannizzu”, contenitore di frumento- e dalla convivialità del consumo.
Il pane poi nelle dimensioni miniaturizzate, “cudduredde”, assolveva il ruolo di pane-giocattolo, mentre “ a cruna ro Signori” realizzata durante le festività pasquali, appesa al bavaglino dei bambini,
richiamava la sofferenza della dentizione.
Non si possono, infine, non ricordare i pani speciali quali “cucciddati”, “vastuna”, “iadduzzi” e “palummedde” che sintetizzano in maniera esemplare il legame dell’arte panificatoria con la figurazione dei simboli delle grandi feste, rivelandone la sacralità.
In questa nostra riflessione facevamo prima riferimento al grano duro della varietà “russello”tipica del territorio modicano. Trattasi di una vecchia
varietà di frumento duro selezionata oltre cinquant’anni addietro e presente ancora in alcune aree della Sicilia centro orientale.
Nell’area degli Iblei, e segnatamente negli altipiani di Modica e Ragusa, alcuni agricoltori hanno continuato a coltivarla ed a riprodurne il seme per il mantenimento delle sue caratteristiche distintive.
Le caratteristiche delle semole, l’adattabilità ai suoli superficiali dell’area iblea, la taglia alta che comporta l’utilizzazione della paglia, rappresentano le principali motivazioni per il mantenimento in coltura , di questa varietà ,da parte dei contadini.
Nelle prove di valutazione bioagronomica di questo biotipo condotte in più ambienti e per più anni, è emerso che la varietà “ russello” oltre a resistere alle situazioni pedoclimatiche più difficili, risulta particolarmente idonea alla panificazione secondo la tecnologia tipica prevista dal processo di panificazione a pasta dura, in particolare per la produzione del tipico pane e pasta dura degli Iblei.
La diffusa presenza, nel nostro territorio, di piccole imprese, spesso a carattere familiare, che producono il tipico pane a pasta dura testimoniano la vivacità di un mercato rivolto al consumo di prodotti locali, fortemente ancorati alle tradizioni culturali e gastronomiche che giustificano un potenziamento della produzione dei prodotti primari, quali ad esempio la varietà “russello”.
Occorre, pertanto, impegnarsi per iscrivere al Registro delle varietà il “russello” dimostrando che le caratteristiche qualitative di questa varietà di frumento siano fondamentali e non surrogabili per la produzione del tipico pane e pasta dura degli Iblei e che l’incentivazione delle produzioni dei prodotti tipici locali può rappresentare, in questo particolare momento storico, oltre che un motivo per la valorizzazione e la promozione del territorio, un fattore importante per lo sviluppo ed il rilancio economico dello stesso.
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