ingegneria


| home | chi siamo | dove siamo | servizi | contatti | news
| it | de | en | fr | es
 



La mietitura e la trebbiatura nella Contea di Modica  

Un viaggio nella memoria attraverso le usanze ed i costumi dei contadini

I contadini  nella Contea di Modica hanno costituito la parte più sana e più laboriosa del popolo di questo territorio. Con le loro pratiche hanno conservato nel corso dei secoli un patrimonio ricco di costumi e tradizioni che purtroppo  è già scomparso.
Fra tutte le attività che il contadino svolgeva nel corso dell’anno, quelle della mietitura e della trebbiatura rappresentavano il coronamento delle speranze e delle fatiche di tanti mesi di sacrifici.
Questo lavoro tanto impegnativo purtroppo doveva essere affrontato sotto i cocenti raggi del sole siciliano. Il contadino attendeva con trepidazione il mese di giugno tanto da andare in pellegrinaggio al Santuario  della Madonna delle Grazie nel centro storico di Modica per portare un mazzo di spighe, mentre le donne non mancavano di osservare la “tredicina” al Santo di turno affinché intercedesse per una buona mietitura.
Quando arrivava il mese di giugno i contadini a gruppi partivano dai loro borghi con i “carretti” carichi di masserizie per raggiungere i luoghi dove dovevano procedere alla mietitura. Durante la notte si riposavano all’ombra di qualche albero e allo spuntare del giorno erano tutti presenti al campo da mietere. Quest’ultimo dai contadini, convenzionalmente, veniva diviso in varie sezioni  “ “a mpara”come linee guida del lavoro che essi dovevano effettuare.
Il “ligaturi” ,contadino incaricato di stabilire i posti ed i compensi, indicava il punto da dove si doveva cominciare a mietere ed i contadini indossato il “pittali” infilato nel braccio sinistro, il “bracciali” entrambi di cuoio e con tre ditali fra le dita “canneddi”, formavano la riga con in testa il più forte ed abile “u caporali ri lautu” ed in coda il meno valido" u caporali ri la ristuccia”.
Ancora più indietro stava il “ligaturi” il quale facendosi il segno della croce dava il segnale di avvio dei lavori con l’espressione “sia lodato e ringraziato lu Santissimu e Divinissimu Sacramentu”.
I mietitori rispondevano “sempre sia lodatu” e incurvandosi a falciare al primo taglio mormoravano “in nome ri Diu”. Lavoravano fino a quattordici ore al giorno, con sveltezza e rapidità sotto il sole cocente estivo e per tenere alto il morale e le forze consumavano molto vino che attingevano dal “passaturi”,bariletto, così chiamato perché ad ogni passaggio di esso il capo recitava una orazione ad un  Santo.
Alla fine della dura giornata di lavoro nel “bagghiu” della casa colonica si consumava un pasto a base di pasta versata in un’enorme madia attorno alla quale si sedevano tutti i mietitori.
Consumato il pasto e recitate le preghiere della sera al suono dei "friscaletti” e dei “tamburieddi” si dava vita a canti e balli scatenati. Infine stanchi e sfiniti cadevano in un sonno profondo fino all’alba, per poi ricominciare una nuova giornata di lavoro.
Il contadino durante la mietitura portava con sé l’asino, il cane ed una sua donna (moglie, figlia o
madre) come “spicalora” spigolatrice. Quest’ultima, però, non poteva entrare nei campi mentre si mieteva. Solamente dopo che i covoni venivano trasportati fuori la si autorizzava ad entrare a “scogghiri” fra le stoppie.
Ognuna di esse portava con sé un sacco grande ed un sacco piccolo che riempitolo di spighe andava a svuotare in quello grande. Dopo aver spigolato per due terzi della giornata “la spicalora” tornava alla casa colonica e con una mazza sbatteva le spighe e quindi le spulava. Riusciva in questa maniera a racimolare quel poco di grano che serviva alla propria famiglia per sfamarsi durante la stagione invernale.
I momenti più significativi della mietitura erano costituiti dal taglio delle spighe con le quali si formavano piccoli mazzi”jemiti” che raccolti in grandi covoni “regne” venivano legati con le “liane
corde costituite da fibre naturali. Quindi si passava alla trebbiatura quando muli e giumente nell’aia calpestavano le spighe per sgranarle.
La trebbiatura per il nostro contadino era il coronamento di otto lunghi mesi di lavoro quando con indescrivibile sofferenza doveva affrontare  questo impegnativo lavoro, sotto i raggi infuocati del sole “africano “ del Sud.
Egli affrontava questo momento cantando testi infarciti di religiosità dai quali attingeva lena e sollievo.
Il lavoro iniziava di buon mattino quando si procedeva a tagliare i fasci di spighe dal mucchio “timugna” per disporle scomposte e sparse nell’aia dove il contadino “caccianti” che teneva le redini sferzava con una fune una coppia di muli correndo loro dietro intorno all’aia.
Il “caccianti”, pur correndo e frustando gli animali, cantava i “muttetti ri lu pisatu” versi di lode e ringraziamento a Dio e ai Santi ed incitamento alle bestie per reagire alle grandi fatiche della trebbiatura.
Regolarmente ad ogni strofa nuova  calava un colpo di sferza; tra l’una e
l’altra, passando un certo lasso di tempo, si inframmezzavano  parole di incitamento come “uocciu vivu! Vutamu! Jacca’, avanti avanti!”   e  poi ancora “arripigghiti” svegliati, “curuzzu e cuogghi ciatu” prendi fiato e “Viva Giesuzzu, Giuseppi e Maria”.
Gli altri contadini stavano attorno e con il forcone , “tradenta” ,  riaccostavano al centro dell’aia  le spighe che gli animali facevano saltar fuori.
I  contadini in quella occasione vestivano con  camicia e mutande di tela ed in testa tenevano un largo cappello “cappieddu ri curina”. Quando le spighe erano state sufficientemente calpestate, le bestie venivano portate fuori per dare la possibilità ai contadini di “vutari l’aia”. Si passava quindi alla seconda “cacciata” a cui ne seguivano altre a seconda della qualità del grano e del caldo della giornata.
Nell’ultima “cacciata”, allorché i fasci di spighe erano ridotti in paglia, il caccianti intonava una serie “di muttetti” con i quali congedava le bestie esauste per la fatica, e gli altri contadini ripetevano gli ultimi tre versi con voce più bassa per poi intonare il Credo e molti Pater per i Santi protettori delle loro fatiche.
Le mule, finiti i canti, scappavano allegramente, saltando fuori dall’aia mentre il caccianti con il

mazzuni” inzuppato in acqua ed aceto lavava le  piccole ferite che aveva loro prodotto con la sferza.
Finita la “cacciata” uomini e donne iniziavano la “spagghiata” per separare i chicchi di frumento dalla paglia ed il tutto prima che sul finire del giorno calasse il vento.
Dopo aver “nisciuto a pagghia” che veniva imbrigliata in una larga reta “u saccu a pagghia” e riposta nella "casa ra pagghia”, da servire per sfamare le bestie durante l’inverno, i contadini in attesa che una buona minestra li rinfrancasse,  rimanevano nell’aia nella quiete campestre interrotta dal frinire delle cicale.
Dopo cena, nell’aia iniziava un momento animatissimo fatto di scambi vicendevoli, di motti pungenti, di frasi equivoche e a doppio senso, scherzi, barzellette, giochi e sfide. Non mancavano contadini che si improvvisavano poeti  recitando versi e neppure suonatori di friscaletti , marranzani e cembali che accompagnavano stornelli tradizionali.
Duravano fino a quando il sonno con la complicità della stanchezza e del vino non li vinceva definitivamente.
Finita la trebbiatura si trasportava il grano dalla campagna alla città con le mule che insieme costituivano le “retine”. Ogni “retina” era composta da otto mule e da un “capu retina” che le precedeva cantando struggenti canzoni d’amore, accompagnate dal suono delle campanelle poste sulle creste degli animali.
I momenti e i riti di queste tradizioni, ormai scomparse per il sopravvento della tecnologia, sono mirabilmente  rappresentati in versi dal poeta modicano Carlo Amore (1768/1841):
“Partunu tutti contenti e fistanti, a quattro, a cincu, in sei li spicalori, cantunu assiemi muttetti brillanti o duci canzuneddi, o barcalori, e trippannu comu li baccanti sfoganu l’alligrizza ri lu cori, s’ammuttunu, s’ancugnunu, s’abbrazzunu e p’alligrizza ‘nterra s’arrumazzunu…… cui s’appizza rarrieri lu maritu, cui seguita lu frati, cui lu ziu, cu talia ri luntanu u sa zitu, misi abbuccuni, senza tuou né mio. Cu lu visu suratu e culuritu, cuogghiunu spichi cu alligrizza e briu, masculi, ranni e picciriddi e li lagnusi assicutanu i riddi”.

 


Servizio curato da Ingegnicultura, laboratorio di progettazione e servizi per l’ingegneria e i beni culturali di Modica.
Sito web:
www.ingegnicultura.it
Contatti: cultura@ingegnicultura.it


 

 

 

da www.modica.info
Autore: Mario Incatasciato
 
 
 
   
amministrazione   © aisthesis tutti i diritti riservati