Botteghe che andavano per via: “u scuparu” e “u cannizzaru”
Le visibili trasformazioni cui è stata soggetta la nostra società in questi ultimi decenni, con il declino dei mestieri tradizionali cancellati dalla tecnologia industriale, hanno alimentato l’urgenza del recupero e della valorizzazione di tutte quelle testimonianze raccolte e sistemate nei musei etnoantropologici che illustrano un mondo di esperienze secolari e di creatività manuale in cui sono stati fissati tradizioni di lavoro e rapporti di produzione.
Folte schiere di uomini e donne, anonimi protagonisti, spesso ignorati dalla storia ufficiale sono stati pazienti tessitori dell’identità collettiva e anche dell’immagine delle città.
Gesualdo Bufalino nelle pagine del suo “Museo d’ombre” definisce questi mestieri “attività vagabonde, esercitate all’aria aperta col consenso del sole, della pioggia, del vento: mestieri da picaro; immagini per un bambino che so di invidiata felicità”.
Gli arnesi, i manufatti, gli aneddoti e la storia di questi lavori, cancellati dal progresso tecnologico, non debbono essere dimenticati e proprio per questo noi continuiamo la
nostra rassegna dei mestieri perduti, proponendo quello dello “scuparu” e del “cannizzaru”.
Tra i tanti itinerari offerti dal nostro territorio anche questi riteniamo concorrano ad intrecciare i fili su cui viaggia la continuità dei valori storici collegando gli oggetti conservati nei musei della nostra provincia alle peculiarità paesaggistiche, architettoniche ed etnoantropologiche esistenti nel territorio.
“U scuparu” era l’artigiano del domestico utensile, la scopa, nata dalla maestria con cui le sue mani piegavano, intrecciavano e tessevano le lacinie essiccate della “chamerops humilis”palma nana, pianta spontanea della macchia mediterranea che cresce e vegeta nei luoghi aridi ed assolati. Dalle
sue foglie verdi ,distese a ventaglio, “ u scuparu” realizzava le scope e poi anche corde, “coffe” contenitori e “ciuscialora”soffietti.
La tecnica della realizzazione della scopa consisteva nell’intrecciare le lacinie della “scupata” lungo la corda-telaio tesa dalla cintura dei pantaloni dell’artigiano fino ad uno dei suoi piedi. Con l’espressione “antrizzari a scupa” si indica il processo
di manifattura vera e propria che consiste nel legare fortemente al filo teso, i “mazzuna”(gruppi di foglie di palma nana raccolti a gruppi di cinque-sei) e formare così i dieci dodici mazzetti da stringere e legare insieme in un unico fascio.
Ormai nessuno si cura più di raccogliere “a scupata”, foglie secche della
palma nana, per la realizzazione delle caratteristiche scope. Tanti ,di contro, quelli che arredano i propri giardini con la cosiddetta palma di San Pietro spesso sottratta alle zone di coltivazioni protette.
“U cannizzaru” si avvaleva, invece, della comune canna (arando donax) e di virgulti di olivastro, di melograno e di salice per realizzare oggetti d’uso quotidiano e domestico,ormai definitivamente scomparsi, per l’irrompere dei materiali in plastica. Ricordiamo le “cavagne” forme sottili coniche per
contenere la ricotta, il “cannizzu” silos per conservare il frumento, le “cruedda” contenitori per il trasporto di merci, il “panaru” cesto utilizzato per numerosi usi, e tante altre realizzazioni.
Rispetto alla numerosa gamma dei manufatti realizzati, ben pochi erano gli attrezzi utilizzati da questo artigiano. Si affidava alla perizia delle sue mani per piegare i listelli della canna con cui confezionava i citati oggetti, i graticci e
perfino girandole sonore per spaventare con il loro rumore gli uccelli e allontanarli dai campi coltivati.
La facile reperibilità della pianta molto diffusa nelle campagna degli
iblei e la grande versatilità di intreccio, documentata dagli oggetti possibili da realizzare, attestano il largo uso cui era destinata la canna comune nel mondo contadino.
Con essa venivano realizzati anche i tetti delle case, gli zufoli e i “ditali” che coprivano le dita della mano sinistra dei mietitori per evitare di ferirsi con la falce.
Strumenti del cannizzaru erano: il “ciaccaturi”, attrezzo in ferro e legno per tagliare longitudinalmente in
due strisce gli steli di canna; la “ cruci di lingu”, costituita da due rametti lignei riuniti a croce, utilizzata per ottenere da uno stesso stelo quattro stecche corrispondenti e poi roncole, falci, succhielli e mazze di legno.
E a proposito di questi pazienti tessitori dell’identità collettiva che interrarono, nei pendii collinari, semi di civiltà vogliamo chiudere questa nostra riflessione sempre con le parole di Gesualdo Bufalino “ Una
civiltà è specialmente la ricchezza dei suoi mestieri. Ognuno dei quali nella propria cellula chiusa s’inventa mimiche, abbigliamenti, linguaggi, contegni, aneddoti di commozioni o di scherzo, una pedagogia,una morale. Queste erano le botteghe sino a poco tempo fa coaguli di cultura sufficienti a se stessi, regni dove il re si chiamava “mastru”, e cioè maestro di martello, d’ascia, di trincetto, di tornio…”.