Lungo la strada del vino: la vendemmia negli iblei
Il rito della vendemmia nell’area degli iblei è un evento che scandisce il tempo dell’autunno. Protagonisti il vino, la sua gente e i suoi territori.
I vigneti di Comiso, Pedalino, Vittoria, Ispica ed Acate si popolano all’improvviso e nei palmenti si rinnovano gesti e abitudini che rievocano immagini uniche del lavoro dell’uomo.
L’interesse verso l’evento è cresciuto notevolmente di anno in anno ed ha attirato sempre di più l’attenzione di turisti e residenti desiderosi di fare un’esperienza di grande valore culturale ed umano. Sono soprattutto i giovani, da soli, in gruppi, in comitive, le scolaresche ad animare le innumerevoli iniziative culturali che fioriscono attorno al rito della vendemmia, spesso su iniziativa degli stessi vignaioli. Certi gesti rituali si ripetono nei secoli, con sacrale cadenza dei ritmi del tempo.
Una volta la vendemmia iniziava all’alba.
Il proprietario assegnava un filare di vite a ciascun vendemmiatore e ad ogni estremità vi era un “capu filari”. L’uva veniva raccolta nei “cruveddi”, cesti di vimini, e scaricata poi in grosse ceste”cancidduzzi”, contenitori più grandi, posizionati sul dorso di muli o cavalli. Chi trasportava l’uva fino all’animale e con questo fino al palmento era detto “u carriaturi”.
L’uva veniva trasportata all’interno del palmento tramite una finestra detta “finistruni” e scaricata nella “pista”, un piano di legno leggermente inclinato, posto sopra il palmento, ove l’uva subiva la “pisatura”, la pigiatura.
I “pisaturi”, gli addetti alla pigiatura, a gambe nude o con scarponi pestavano l’uva e per non scivolare si sorreggevano ad una corda che pendeva dal soffitto.
Il mosto così ricavato, attraverso dei fori, si riversava nei tini detti”tinieddi”, I residui della pigiatura,poi, venivano passati al torchio”rata o cuonzu”. Il torchio era formato da un’unica trave di quercia detta “cianca” fissata al muro da una parte e dall’altra terminava con due travi e l’albero verticale.
La procedura veniva ripetuta più volte sfruttando la pasta “scuozzula” il più possibile.
Il mosto così ottenuto veniva lasciato riposare per 24-48 ore, dopodiché veniva “sfossato” con dei contenitori detti “quartara” della capienza di dodici litri.
Il mosto, a questo punto veniva travasato nelle botti fase detta della “cunsinna” dove avveniva la maturazione.
Durante la giornata veniva distribuito ai vendemmiatori il companatico: un po’ di sarde salate, pomodori, cipolle, formaggio, pane e vino. La sera veniva servita della minestra e dopo si suonava e si ballava.
Oggi nell’epoca delle tecnologie avanzate, il processo della vendemmia è affidato quasi esclusivamente a delle macchine anche se la regia dell’uomo resta insostituibile.
L’introduzione della vite in Sicilia è opera dei Fenici ma la produzione sistematica del vino viene fatta risalire ai Greci. Coloro che esportarono il vino e la vite in tutta Europa furono i Romani.
Con le invasioni barbariche il vino fu soppiantato dalla birra. Soltanto i monaci cristiani mantennero piccole coltivazioni per produrre quantità di vino necessarie per l’espletamento delle funzioni religiose.
Col passare dei secoli la viticoltura ha continuato a svilupparsi e sono sorti dei centri urbani la cui economia è legata esclusivamente al mercato del vino.
I vini iblei vissero il momento di maggiore notorietà a partire dal 1875, quando giunsero a rappresentare per l’economia agricola quel che oggi rappresenta l’orticoltura.
Nel 1875 la filossera devastò i vigneti francesi falcidiando la produzione vinicola transalpina di oltre il 60% ed imponendo il ricorso all’importazione. L’Italia fu il primo fornitore della Francia e la provincia di Ragusa vi ebbe un peso notevole decuplicando le proprie esportazioni.
Le circostanze stimolarono l’avvio di una massiccia riconversione di vaste aree agrarie e vitigni, fino a quando nel 1887 la filossera invase anche il Ragusano e l’anno successivo la Francia sospese le importazioni. Iniziò così il declino della vite in Sicilia.
Solo negli ultimi due decenni l’industria enologica ha manifestato una rinnovata vitalità, grazie al successo di alcune iniziative cooperativistiche ma anche per merito di privati impegnati a riscoprire e a rivalutare vini di indubbia tradizione e qualità, quali l’ambrato di Comiso, il cerasuolo e lo zibibbo di Vittoria ed il nero d’Avola di Ispica.
Oggi con l’entrata in vigore della riforma Ocm vino- Organizzazione comune del mercato- varata dalla Commissione Europea, diverse sono le modifiche introdotte rispetto al passato. Si punta alla
ristrutturazione, riconversione ed estirpazione definitiva dei vigneti ,alla promozione dei vini e alla distillazione e arricchimento del mosto.
Per la Sicilia sono disponibili per quest’anno 36 milioni di euro che rappresentano una grande opportunità per rilanciare un comparto che è il fiore all’occhiello dell’agricoltura isolana.
Oggi è anche possibile organizzare visite guidate, in vigneto o in cantina, e degustazioni lungo le strade del vino, da Ispica a Pedalino passando per Comiso e fino a Vittoria e ad Acate, alla scoperta delle tradizioni, dei gusti e dei vini. Questi luoghi sono mete turistiche al pari di un museo o di un monumento, divenendo un valore aggiunto per il territorio.
Le aziende vitivinicole diventano meta turistica e consentono di scoprire anche la bontà dei prodotti tipici locali e di ricette dal sapore antico ma attuale, quali la “mostata”, i cavatelli al mosto “cuddureddi o lolli” , i “mustazzoli” di vino cotto:
E’ questo anche il programma di Ingegnicultura laboratori di progettazione e servizi per l’ingegneria e i beni culturali di Modica ,sezione cultura .Lo studio si propone come interlocutore per la progettazione, la gestione e l’organizzazione di visite guidate, itinerari e laboratori didattici ad aziende vinicole e a cantine presenti nell’area iblea coinvolgendo i fornitori di servizi e gli operatori del settore
Il tutto con l’obiettivo di trasmettere, attraverso il vigneto, il legame inscindibile fra territorio e uomo.